IL RE PESCE PRETE E LA PESCA DEI LUSSI

IL RE PESCE PRETE

E’ il nobile pesce della zuppa, visto e considerato che ha meno lische del suo pari grado il cappone ed entrambi hanno un portamento regale: rosso fuoco il cappone o arancione a seconda dei coralli dove vive, sempre marrone con toni di grigio per il prete che vive sotto il fango o la sabbia. Perché preferiamo dedicare spazio a questo buffo e simpatico pesce, tralasciando altre specie regali come la gallinella, la tracina (agna) e lo stesso cappone? Semplice: perché di pesci preti o guardastelle (per via degli occhi posizionati in alto rispetto alla testa) sono diventati rari a causa della pesca a strascico. Sono possenti, dotati di alcuni aculei velenosi veloci e scattanti per mangiare ma assai goffi al momento di nascondersi. E così, vivendo in fondali fangosi, senza riparo, sono stati “scentati”, come si dice in gergo marinaresco, dalle reti a strascico spesso trainate in fondali inferiori ai cinquanta metri previsti dalla legge. Basta parlare con i vecchi dei tremagli (reti da posta) per scoprire che nei mesi di febbraio ed a luglio era normale prendere in abbondanza il “re della zuppa”, in ogni località vi era una zona sui 25/40 metri dove i pesci prete vivevano in grandi colonie con esemplari del peso di oltre un chilogrammo, poi poco alla volta sono spariti da Deiva Marina, da Moneglia, da Vallegrande, zone rastrellate tutti i giorni dalle paranze di S. Margherita Ligure e di Sestri Levante; poi anche dal golfo di Riva sono spariti e così pure da tutta la fascia litoranea tra Chiavari e la Penisola. Pensate che erano diventati così rari che era sufficiente indicarne un esemplare in una cassa di zuppa per sentire apostrofare dalla pescivendola “Eh no! Quello da solo non glielo posso vendere, perché altrimenti mi rovina la zuppa! Per capirci meglio: sì alla tracina, alla gallinetta, alla pescatrice, al gronghetto ma per il pesce prete bisogna piazzare almeno due chili di zuppa altrimenti poi diviene difficile completare l’abbinamento. Fin qui tutto, purtroppo, naturale ma la novità è che i pesci prete sono tornati, o meglio, sono stati riscoperti nell’ultimo anno. Merito, per i buongustai, un po’ meno per i pesci, del motopesca “Novantatrè – Polpo Mario Due” che con le sue reti da posta ha scovato in due punti precisi, che ovviamente resteranno segreti, intere colonie di pesci prete. Tra lo scorso anno e l’ultima estate, ne sono stati catturati oltre 600 esemplari con pese variabile tra i tre etti e il chilogrammo. A dare man forte a questa forte razza sono stati gli “agguanti” di Sestri Levante, Riva Brigoso e Deiva Marina che, raggiungendo la profondità di 50 metri, impediscono di fatto ai pescherecci di entrare sottocosta. Così tra un relitto e l’altro, tra un agguanto e la “zinna” (la delimitazione tra la sabbia-fango e la poseidonia-scoglio) i pesci prete (in alcune località li chiamano anche “pesci bagio”) hanno ripreso a frequentare i banchi delle pescherie. La grande vitalità che li contraddistingue (si muovono anche dopo ore dalla loro eviscerazione al contatto con l’acqua della pentola), è il fatto che hanno una polpa soda e senza lische ne fanno il numero uno per il ciupin e nella zuppa può essere servito da solo, coperto dalla “bagnetta” realizzata con scorfani o pesce da scoglio. Ci fermiamo perché non è il caso di divagare ulteriormente, però quando si salpa una rete con quindici o venti pesci prete uno di fila all’altro, è una soddisfazione e anche un po’ una rivincita verso coloro che non vanno più in mare (dopo il decreto Evangelisti, che ha tolto le reti da posta ai dilettanti, nel solo comune di Sestri Levante 120 persone non hanno più esercitato) e che sostengono che pesci in mare ce ne sono sempre meno.

Non temete, come sono ricomparse le ombrine bianche, le corvine, i dentici, le leccie, i gamberi imperiali, i pesci prete, le aragoste, gli astici anche altre specie troveranno il loro habitat naturale nei fondali del Tigullio, a patto che si rispettino le regole dello strascico, delle lampare da scoglio, delle reti da circuizione meccanica, che sotto i 50 metri di fondale hanno un vantaggio troppo grande rispetto alla fauna marina per la velocità dei mezzi di pesca usati e sono devastanti per la flora che deve rappresentare il vivaio del plancton. Naturalmente oltre ad un maggior rispetto da parte dei pescatori, devono comunque migliorare le condizioni ambientali. Sicuramente la coscienza ambientale sta facendo passi da gigante e proprio la storia del ritorno del pesce prete ne è la prima dimostrazione: se il fondale viene lasciato riposare, se dalle fognature sottomarine escono liquami protrattati non chimicamente, se le petroliere non lavano più le taniche lanciando in mare tonnellate di greggio (che poi in parte finisce a terra e l’altra parte sul fondale) allora i pesci possono riprodursi per essere poi pescati con sistemi regolari e selettivi come i tremagli.

Diciamo subito che esistono due tipi di gronghi e altrettante tipologie di pesca per catturarli. Negli scogli vive il grongo nero: è facilissimo pescarlo perché ve ne sono milioni. Un nylon del 100 e un amo grande, un pezzo di pesce a carne sodo gettato in qualsiasi scogliera da 50 cm a 70/80 metri esclusivamente di notte e possibilmente senza luna per prendere la “biscia di mare”. Il peso varia dai due o tre etti fino ai sette o otto chilogrammi ed in questi casi diviene difficile issarlo sulla barca: occorre prima arpionare la preda; la qualità delle carni è ottima ma non esiste mercato per il grongo nero, bisogna saperlo “mungere” per fare scorrere l’infinità di piccole spine verso la coda che poi viene tagliata e gettata, così come la testa. Di ben altra portata il grongo bianco che vive nei fondali dai 300 agli 800 metri: è prelibato e per catturarlo occorrono esperienza per trovare le cale giuste, e palamiti o parancali capaci di scendere i tali abissi. Nelle foto accanto, Rudy con due esemplari di grongo bianco del peso di 34 chilogrammi pescati sul “banco di Chiavari” con il motopeschereccio “Novantatrè – Polpo Mario Due” e con uno dei più grandi esemplari che si ricordino a Sestri Levante, un grongo-lucerna di ben 53 chilogrammi pescato a 500 metri di profondità a undici miglia al largo di Punta Mesco.

LA PESCA DEI LUSSI

Il lusso è un pesce stanziale, vive in branchi a forma di palla, come le api, in posti fissi su fondale ghiaioso; mangia un tipo particolare di alga, ha pochissimo sangue, corpo sottile e aguzzo, un gusto di mare deciso e, sua grande qualità, della quale peraltro non si sa quanto vada orgoglioso, nessuna lisca.

Oserei dire, anche se scientificamente non saprei quali prove addurre, che come consistenza di carne assomiglia al cavallo marino, quello affusolato: infatti, proprio perché ha poco sangue, se viene gettato a riva non marcisce, ma secca, come il cavallo marino. Per catturarlo bisogna conoscere i posti dove vive: sempre gli stessi da generazioni. Arrivati sulla verticale del luogo, si individuano i lussi con lo specchio in un fondale di 10-15 metri, quindi si getta la rete appropriata, detta “ruscetou”: è una sciabica con la “morte” (la parte terminale) molto lunga. Si getta il “ferro”, cioè un’ancora a quattro punte, si cala la rete seguendo la corrente e si dà il giro ai lussi; quindi si spaventano i pesci calando una pietra legata a del nylon bianco; movendo su e giù la corda, il nylon sbatte come un fantasma che agiti il proprio lenzuolo bianco; come mai i lussi abbiano tanta paura dei fantasmi non saprei; so che non gli giova per niente: terrorizzati, si ficcano nella sacca della morte; se si è bravi e si tira su velocemente, ci rimangono dentro tutti. E molti di loro forse capiscono, al modo che capiscono i pesci, con tutto il corpo, che il fantasma non era che un presagio.

Ricordo la pesca eccezionale che facemmo nel settembre del 1977: avevamo visto con lo specchio un grosso branco di pesci, velocemente gettammo e chiudemmo le reti; e con nostro grande stupore, quando le salpammo, vedemmo che oltre ai lussi (più di 70 casse), avevamo catturato un’ottantina di lecce che stavano dando la caccia ai lussi ed erano rimaste prese, diciamo così, per errore. Un errore, s’intende, del quale non ci spiacque per nulla. Purtroppo, proprio quella volta il Luna aveva dimenticato, per una di quelle dimenticanze sulle quali Freud ci ha illuminati, di caricare le provviste. Era mezzogiorno passato, ci trovavamo al largo di Deiva, affamati, assetati e senza alcuna voglia di aspettare un paio d’ore per mangiare e bere. La decisione fu presto presa, e neanche tanto sofferta: facemmo rotta per il paese e più precisamente verso la trattoria Poleski; scaricammo il pescato e, dopo una breve trattativa con il padrone, ce ne mangiammo la maggior parte, mettendo il resto sul conto del vino che tracannammo senza risparmio. Un poco, si capisce, ci dispiacque; ma solo un poco. In realtà, raramente fummo allegri come il quella occasione. Ma ci sentimmo più ricchi, perché solo ai ricchi sfondati può capitare di gettare così un piccolo patrimonio. Del resto, pensavamo festosamente, non si vive mica per i soldi, no? E poi, a vedere le cose da un altro punto di vista, stavamo facendo una bisboccia colossale senza tirare fuori una lira. Che cosa si può volere di più dalla vita?

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